sabato 8 dicembre 2007

L'idea si forma...

Ho iniziato a pensare ad una vita meno isolata e più comunitaria dalla scorsa primavera, anche in seguito a fatti che non sto ora a raccontare. Dico soltanto che l’equilibrio nel quale mi ero adagiato si è rotto e mi sono sentito franare il terreno sotto i piedi. Ho passato giorni duri, nei quali le mie (poche) certezze si sono frantumate e nei quali mi sono accorto di quanto fragile fosse l’impostazione che stavo dando alla mia vita e di quanto poco consistente fosse (ahimé) la mia fede. Pensare ad una vita diversa, improntata su una profonda fraternità, è stata una delle risposte che ho dato alla domanda “che cosa posso fare della mia vita?”.

Meditando sulla solitudine che respiriamo spesso nel nostro tempo, anche in ambito della comunità parrocchiale, mi sono chiesto: Ma questa “comunità”, dov’è? Che senso ha dirsi fratelli gli uni gli altri quando poi, usciti dalla celebrazione della Messa, ognuno torna alla propria casa e pensa solo agli affari propri? Com’è possibile che ci siano persone che restino isolate all’interno della “comunità” cristiana? In quei giorni non facili mi fu chiaro che in realtà il senso della comunità come io lo intendevo, fatto di vera condivisione e aiuto, si era perso.

Leggevo negli Atti degli apostoli la vita dei primi cristiani:
“Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”. (At 2, 44-48)
Eh sì, questa era una vera vita comunitaria, questi sì che si comportavano da fratelli! D’altra parte Cristo stesso aveva affermato:
“Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. (Gv 13, 35).

Ecco dunque che trovavo in quella Scrittura di duemila anni fa, che dovrebbe essere la base e il modello di vita per ogni cristiano, il modello di una vita diversa, vissuta in maniera più vera e più forte, attenta ai bisogni di ciascuno e aperta all’accoglienza di chi sentiva in sé la spinta a farla sua. Riconobbi insomma nello stile di vita delle prime comunità cristiane il modello di ciò che stava riempiendo la mia mente e il mio cuore. Duemila anni di storia e di “civilizzazione” avevano progressivamente offuscato e rimosso quello stile di vita semplice e felice nel quale ciascuno poteva sentirsi parte di una grande famiglia.

Mi misi alla ricerca, soprattutto tramite il web, di realtà simili a quelle nel nostro mondo di oggi. Con grande gioia scoprii molte realtà sparse per l’Italia e per il mondo, realtà di persone che portavano avanti vite più o meno comunitarie da consacrati, da laici, come unioni di famiglie o di singole persone. Chi aveva fatto dell’accoglienza degli ultimi il proprio scopo, chi invece aveva scelto questa vita semplicemente perché più “vera”. Queste realtà hanno molti nomi: fratellanza di Bose, casa famiglia Maranà-tha, fraternità di San Leolino, case famiglia e case di fraternità della Papa Giovanni XXIII, Arsenale della pace, Casa della solidarietà... ce ne sono diverse, ognuna con la propria storia, col proprio obiettivo, con le proprie peculiarità. Scriverò di loro nei prossimi post, con calma. Concludo solo col dire che leggendo di loro scoprii che il sogno che si andava formando dentro di me non era il sogno di una persona isolata ma altri, prima di me, avevano sentito la stessa spinta e magari altri in questo stesso mio tempo, in questo momento, potrebbero sentirla. Sentii che quel sogno, in un futuro, avrebbe potuto vedere la luce.

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